Ciao, non ci sentiamo da un po’.
Come stai?
Davvero, però. Non come saluto di rito o come automatismo.
Intendo: come ti senti, davvero?
Perché credo proprio sia arrivato il momento di parlarne.
Premessa uno: è una newsletter lunga e pesante
Premessa due: per essere più completa, sarebbe dovuta essere ben più lunga e pesante, ma Substack continua a rimproverarmi per aver superato il limite. E chi sono io per far arrabbiare il signor Substack.
Premessa tre: scrivo questa newsletter senza cappelli da studiosa o da esperta del tema, ma da persona che lo ha molto a cuore. E che vuole condividere un po’ di consapevolezza sul periodo che stiamo vivendo.
Ma torniamo a noi.
Ho deciso di scrivere questa newsletter dopo aver rivisto alcuni amici di vecchia data.
Non ci vedevamo da un po’, e come spesso succede in questi momenti, ci siamo messi a ridere di alcuni ricordi, a rievocare i tempi della scuola e a raccontarci delle strade improbabili che stiamo prendendo mentre le nostre vite prendono forma.
Ma mentre parlavamo guardando una vecchia foto di classe, è sceso un alone nero sulla conversazione.
Alcune persone di quella foto, oggi non ci sono più.
E non perché le abbiamo perse di vista.
Allargando la conversazione, ci siamo accorti che non si trattava solo delle persone nella foto. Non era un caso isolato, o una coincidenza tragica.
Era qualcosa di più ampio, di più inquietante.
Ci siamo accorti che, nonostante siamo tutti molto giovani, diverse persone della nostra vita stanno scomparendo dalle nostre foto. Molte, nel peggiore dei modi: togliendosi la vita.
Stiamo vivendo un’ondata di malessere profondo, diffuso, trasversale.
Un disagio che riguarda l’intera società, e in particolare noi come generazione.
Un’emergenza che non ha il fragore di una crisi improvvisa, ma che è silenziosa e subdola. Che non finisce sempre nel peggiore dei modi, ma che sta diventando sempre più presente e ingombrante.
E di cui credo sia fondamentale innanzitutto prendere coscienza.
La collettività dello stare male
Stiamo male, questo l’ho già detto. Ma quanto?
Partiamo dai dati.
Secondo la quarta edizione del Mind Health Report di AXA, oggi un terzo della popolazione mondiale soffre di qualche disturbo.
Ansia e depressione sono i più diffusi a livello globale, e fanno parte della quotidianità di milioni di individui.
Nonostante il trend fosse già evidente nel periodo pre-pandemico, la pandemia ha dato un’importante accelerata, facendo aumentare in un solo anno del 26% i casi di disturbi d’ansia e del 28% quelli depressivi a livello globale.
Ma attenzione: il malessere psicologico non coinvolge solo chi ha una diagnosi clinica. Anche chi non ha un disturbo specifico spesso racconta di sentirsi più fragile, stanco, meno soddisfatto, più sotto pressione.
Gioventù bruciata
Anche se il malessere psicologico attraversa trasversalmente tutta la società, purtroppo è tra i giovani che lascia le tracce più profonde.
E dico purtroppo perché siamo proprio noi — la generazione che dovrebbe vedere la sua vita prendere forma, che dovrebbe sentirsi più viva e piena di possibilità — a manifestare con maggiore intensità i segnali di un disagio che, sempre più spesso, diventa difficile da ignorare.
E anche se condividiamo molte delle sfide con le generazioni adulte, sembriamo portarne il peso in modo diverso: più intenso, più doloroso.
Oltre il 70% dei giovani italiani ha sperimentato ansia, depressione o disturbi dell’umore, e l’81% considera il disagio psicologico una condizione comune nella propria generazione
In Italia, solo il 7% dei giovani dichiara di non aver mai provato sentimenti di depressione o disperazione negli ultimi 12 mesi
Il suicidio a livello mondiale è il terzo (TERZO) motivo di decesso tra i 15 e i 29 anni
Ma la vera domanda è: perché stiamo così male?
E soprattutto: perché stiamo sempre peggio?
Negli ultimi anni - fortunatamente - abbiamo visto crescere moltissimo la consapevolezza e le discussioni sul tema della salute mentale. I social in questo ci hanno dato una grande mano, permettendoci di educare, diffondere consapevolezza e abbattere (o perlomeno mitigare) lo stigma su diversi temi.
Eppure, c’è una consapevolezza che ancora non abbiamo: la natura profondamente strutturale del fenomeno, la portata di questo e il fatto che si tratti di un problema collettivo.
Spesso infatti trattiamo il problema del malessere come se fosse una questione individuale: una parentesi personale, un fatto isolato.
Ma questi malesseri, che sembrano singoli e scollegati, sono in realtà i segnali di qualcosa di molto più profondo.
Non è solo “quel ragazzo”: è una generazione intera che scricchiola sotto il peso di qualcosa a cui non sappiamo dare un nome.
E, si sa, le cose sono sempre più difficili da affrontare quando non hanno un nome.
Ma torniamo noi, e al nostro perché.
Non abbiamo ancora una risposta univoca sulle ragioni che ci stanno portando a questo disagio comune, perché la verità è che non esiste una causa unica.
Non c’è un solo colpevole da puntare con il dito, ma un intreccio di con-cause che, insieme, concorrono a costruire un contesto sempre più pesante da sostenere. Una somma di ambienti, messaggi, modelli e mancanze che si sono stratificati fino a rendere il disagio quasi la norma.
La paura del futuro
Quando vado a parlare negli istituti superiori e nelle università spesso rimango colpita nel profondo, sempre per lo stesso motivo: la sfiducia dei ragazzi e delle ragazze nel futuro.
C’è qualcosa di profondamente ingiusto e triste nel vedere un ragazzo o una ragazza di vent’anni avere sfiducia del futuro.
Perché se chi dovrebbe avere tutta la vita davanti si sente già bloccato da quello che verrà, significa che non stiamo riuscendo a fare la cosa più semplice e più importante che abbiamo: trasmettere fiducia. Nel tempo che verrà, nella possibilità di cambiare le cose, nel fatto che valga la pena provarci.
Capiamoci: la paura del futuro è umana, giusta e inevitabile.
Abbiamo sempre avuto paura del futuro, da quando abbiamo iniziato a pensare, prevedere e immaginare.
E allora? Allora il motore dell’umanità e delle nostre vite è sempre stato il fatto che, nonostante il futuro sia per definizione qualcosa di incerto, sia percepito come possibile – magari non perfetto, ma possibile.
E in quella che può sembrare sfumatura di significato, sta tutta la differenza del mondo.
Quella che vivono oggi le nuove generazioni non è solo paura, è un mix fatale fatto di assenza di prospettive (immaginare un futuro peggiore del presente), ansia esistenziale (la sensazione che nulla sia davvero sotto controllo), sfiducia nel sistema (nelle istituzioni, nella politica, nel lavoro, persino nella scienza), senso di blocco (l’idea di non riuscire mai a diventare davvero adulti, indipendenti, liberi) e di stress anticipatorio (immaginare tutto ciò che può andare storto, ancora prima che inizi).
E così permea la percezione di un futuro buio, peggiore dei tempi che corrono oggi, che si trasforma in senso di vuoto, in mancanza di significato. Per poi diventare - naturalmente - paralisi.
Come mai?
Le cause, come sempre, sono tante e complesse. Sicuramente un aspetto determinante è il fatto di vivere in quella che è stata definita permacrisi: un tempo in cui le emergenze non sono più eventi isolati, ma una condizione permanente.
Crisi ambientale, instabilità economica, guerre, pandemie, ansia sociale, iperconnessione… ogni aspetto della nostra vita permea nell’insicurezza.
Mettici anche un bel pizzico di infodemia, e il gioco è fatto.
Ogni giorno siamo esposti a un flusso continuo e ininterrotto di notizie negative, scenari apocalittici, statistiche spaventose, titoli urlati.
Scrolliamo e leggiamo di ghiacciai che si sciolgono, guerre che scoppiano, disastri economici imminenti, ingiustizie, società al collasso.
Lo facciamo a colazione, al gabinetto, mentre lavoriamo, prima di dormire.
Il problema non è solo l’informazione. È la quantità, la frequenza, e soprattutto la modalità: siamo costantemente bombardati da input che ci attivano il sistema di allerta, che ci tengono sempre sull’orlo del panico, sempre reattivi, mai davvero centrati.
E così, invece di avere tempo e strumenti per capire e digerire ciò che accade, rimaniamo incastrati in una sensazione costante di minaccia e impotenza.
Abbiamo accesso illimitato alle crisi del mondo, ma nessun filtro emotivo per processarle.
È come se vivessimo in un costante stato di “breaking news interiore”, in cui il cervello non riesce più a distinguere tra ciò che sta succedendo davvero e ciò che teme stia per succedere.
E in questo scenario caotico, i giovani sono quelli che pagano il conto più alto, perché stanno costruendo la propria identità proprio mentre il mondo attorno a loro sembra sgretolarsi.
Il futuro, che un tempo era sinonimo di speranza, oggi è diventato un terreno che non è più costruibile, ma da sopportare.
“Come si fa a progettare, se tutto sembra sul punto di crollare?”
“Come si fa ad avere desideri, se ogni giorno è una nuova emergenza?”
E quando i giovani smettono di immaginarsi avanti, qualcosa si spezza. Dentro di loro, e nella società. Perché - di nuovo - una generazione intera che si sente stanca prima ancora di iniziare davvero a vivere non è un dettaglio, è un’emergenza.
Che ruolo hanno, in tutto questo, i social?
Credo che - sotto sotto- lo sappiamo tutti.
Solo che non abbiamo ancora capito - o non vogliamo dirci - fino a che punto.
Si stima che fino al 95% degli adolescenti (13-17 anni) utilizzi almeno una piattaforma social. E fino a qui tutto ok, perché non è tanto la presenza, quanto la frequenza e il tempo di utilizzo.
Circa un terzo degli adolescenti dichiara di essere perennemente online su almeno una piattaforma principale.
Questo comportamento indica una forte abitudine, se non dipendenza, dai social media sin dall’adolescenza. Di fatto, oltre la metà dei ragazzi ammette che sarebbe difficile rinunciare ai social e più di un terzo riconosce di passarci troppo tempo.
I social ci stanno facendo male, e molto.
Lo abbiamo sentito un sacco di volte, talmente tante che forse è diventato questo il problema. Hai presente quando senti tante volte la parola “frigo”, e a un certo punto non sai più cosa sia, un frigo?
Ecco, con gli effetti negativi dei social è successo un po’ lo stesso. Ci sono fior fior di studi in tutto il mondo che gridano correlazioni significative tra l’uso dei social e ansia, depressione, disturbi del sonno, dipendenza comportamentale, bassa autostima, problemi di immagine corporea (fino a disturbi alimentari), cyberbullismo, FOMO (“fear of missing out”, ossia la paura di essere tagliati fuori) e il ritiro sociale.
Eppure, non ne siamo ancora abbastanza consapevoli. Come individui, come società, come istituzioni.
Abbiamo già parlato dell’infodemia, del bombardamento costante di notizie e stimoli.
Ma i social non ci sovraccaricano solo a livello di informazioni: lo fanno anche emotivamente, fisicamente e soprattutto neurologicamente.
L’uso dei social media sta alterando il nostro circuito dopaminico, sfruttando i meccanismi di ricompensa del cervello e creando dinamiche simili a quelle osservate nelle dipendenze comportamentali.
La dopamina è una sostanza chimica che il nostro cervello produce naturalmente. È fondamentale nei processi di motivazione, ricompensa e piacere.
La sentiamo ogni volta che mangiamo qualcosa di buono, che ascoltiamo una canzone che ci piace, che ci sentiamo visti, considerati, amati. È il modo in cui il nostro cervello ci dice: “Fallo ancora, ti fa bene”.
Ecco: i social sfruttano esattamente questo meccanismo, ma in modo accelerato, ripetuto, intensivo.
Ogni like, ogni cuoricino, ogni notifica è una mini-scarica di dopamina. Non grande. Ma continua. Imprevedibile. E quindi potentissima.
Non è diverso da una slot machine: tu pubblichi un contenuto, aspetti, ricevi una notifica, il cervello rilascia dopamina. Ti senti bene. Allora lo rifai. E lo rifai ancora.
Si chiama dopamine-driven feedback loop.
Ma ha un prezzo.
Il nostro cervello non è progettato per tutto questo
Sarebbe quasi tutto ok, se non ci fosse un dettaglio non trascurabile: il nostro cervello, nella sua struttura originaria, non è fatto per reggere una tale quantità di stimoli, e soprattutto non così ravvicinati e continui.
Pensiamoci: per millenni la nostra mente ha gestito stimoli lenti, progressivi, diluiti nel tempo.
Il piacere era legato a cose come condividere un pasto, raggiungere un obiettivo, costruire qualcosa, guardare qualcuno negli occhi.
Tutte attività che richiedono tempo, presenza, interazione profonda.
Poi sono arrivati i social. E improvvisamente, senza transizione, ci siamo ritrovati a ricevere centinaia di micro-stimoli al giorno, spesso anche nel giro di pochi minuti.
Il cervello, inizialmente, risponde con entusiasmo. Ma col tempo, si difende.
A forza di ricevere queste "micro-dosi" di gratificazione, il nostro sistema dopaminergico comincia a cambiare:
diventa meno sensibile,
rallenta la trasmissione della dopamina,
abbassa la soglia del piacere.
E tutto ciò che non produce dopamina veloce — come studiare, lavorare su un progetto, anche solo stare nel silenzio — diventa difficile, quasi insopportabile.
I sintomi? Ansia costante, irrequietezza, distrazione, difficoltà a stare nel presente, sensazione di vuoto e, in molti casi, veri e propri sintomi di astinenza quando si prova a limitare l’uso dei social.
Capiamoci: tutto questo non è la scoperta dell’acqua calda, né un effetto collaterale imprevisto. È il core business delle piattaforme.
Le principali app social sono state progettate proprio per manipolare il comportamento umano, per farci rimanere lì dentro il più a lungo possibile.
Una finestra sempre aperta sul confronto
A tutto questo, si aggiunge un altro effetto meno visibile ma altrettanto impattante:
i social sono una finestra sempre aperta sul confronto con gli altri.
Che poi, il confronto di per sé non è un problema: sin dall’inizio dei tempi, il confronto con gli altri è stato uno strumento fondamentale per la sopravvivenza. Ci aiutava a capire il nostro posto nel gruppo, a imitare comportamenti utili, a migliorare, a sentirci parte di qualcosa. Confrontarci ci ha permesso, per millenni, di evolvere.
È che oggi siamo sopraffatti dal confronto. I social hanno trasformato quello che era uno scambio naturale, fatto di pochi riferimenti reali, in una valanga quotidiana e costante di paragoni impossibili.
E così, senza nemmeno accorgercene, iniziamo a guardarci con occhi diversi.
Ogni insicurezza sembra più grande. Ogni momento di fragilità, più sbagliato. Ogni incertezza, una colpa.
E in questa continua esposizione a modelli irraggiungibili, l’autostima si sgretola, il senso di inadeguatezza cresce, il malessere si cronicizza. Specie nei più giovani.
E chiudiamo con la società della solitudine
Siamo alla fine di questa newsletter, con un ultimo tassello che si aggiunge al puzzle: quello della solitudine. Un fattore che grava in maniera importante sul malessere.
Assurdo, no? Viviamo nel tempo dell’iperconnessione, eppure sempre più persone - soprattutto giovani - dichiarano di sentirsi (e sono) profondamente sole.
Nel 2024, il 57% dei giovani europei tra i 18 e i 35 anni si dichiara moderatamente o fortemente solo.
In Italia si stima che circa 100.000 giovani tra i 14 e i 30 anni vivano in una condizione di ritiro sociale volontario (hikikomori).
Nel 2025, il 57% dei giovani adulti americani della Gen Z (18-24 anni) dichiara di sentirsi solo.
Nel 2022, il 39,4% degli adolescenti italiani tra i 14 e i 19 anni ha dichiarato non avere o di avere pochissimi rapporti sociali reali: la percentuale è più che triplicata rispetto al 2019, quando era il 15%.
Tra i giovani adulti italiani (18-30 anni), durante la pandemia COVID-19, è stata rilevata una forte associazione tra isolamento sociale, solitudine e problemi psicologici sia di tipo internalizzante che esternalizzante. In particolare, la solitudine è risultata il fattore più fortemente associato al disagio psicologico
Per molte persone quindi, specialmente più giovani, si presenta così un paradosso: nonostante vivano in un’epoca di iperconnessione e scambio continuo, sperimentano sempre più spesso solitudine e incapacità di trovare una solida rete sociale su cui fare affidamento.
Insomma, ci sarebbero ancora tante altre cose da affrontare: la velocità esagerata del mondo in cui viviamo, il culto della produttività, la tecnologia che avrebbe dovuto essere una nostra alleata e non peggiorarci la vita, la pressione costante a performare, a essere sempre all’altezza, a non fermarsi mai. Temi enormi che contribuiscono - in modo più o meno importante e impattante - allo stesso scenario.
Ma cosa ce ne facciamo di tutto questo?
Come sempre non c’è una risposta univoca, né una formula magica.
Quello che so, però, è che nessun problema può essere affrontato finché non viene riconosciuto. Finché continuiamo a trattare tutto questo come una somma di casi isolati, finché liquidiamo i segnali come “crisi personali”, “periodi difficili”, “momenti passeggeri”, stiamo guardando al dito e non alla luna.
Siamo una società che sta sempre peggio.
E se una generazione intera si sente stanca prima ancora di cominciare a vivere, se ha paura del futuro, se i dati ci raccontano che milioni di persone si sentono sole, svuotate, ansiose e inadeguate, allora qualcosa nella struttura delle nostre società non sta funzionando.
E forse, dovremmo iniziare a guardarlo per quello che è: un peso sul futuro e un campanello d’allarme collettivo che non possiamo permetterci di ignorare.
Ho apprezzato ogni riga. Teniamo alta l’attenzione: da genitori, da persone. Grazie 🫶🏻
Portare consapevolezza e lottare ogni giorno per un mondo migliore. Brava Bianca